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    ristorante troppo grande per noi soli, con le vetrate a strapiombo sugli scogli, opache
    di salsedine. Faceva freddo, ci ubriacammo con poco, una caraffa di vino e un amaro
    a testa. Uscimmo barcollanti e abbracciati con il piatto del buon ricordo in mano. Ci
    nascondemmo dentro la pineta e facemmo l'amore. Dopo, posai la testa sul ventre di
    Elsa. Rimanemmo così, in ascolto del futuro che ci aspettava. Poi tua madre si
    sollevò e andò a raccogliere qualche pinolo annerito. Io rimasi a guardarla. Credo che
    quello fu il giorno più felice della nostra vita insieme, ma naturalmente non ce ne
    accorgemmo.
    Da quel giorno di marzo erano trascorsi quasi dieci anni, e io passavo accanto a
    quella pineta senza più voltarmi, mentre l'asfalto sotto le ruote s'infarinava di sabbia.
    Parcheggiai la macchina sotto il canniccio nel retro del giardino. Mi chinai per non
    urtare il filo dove erano appesi il telo e il costume da bagno di Elsa. Un costume
    intero color prugna di tessuto elastico a nido d'ape che lei arrotolava sotto l'ombelico
    quando prendeva il sole. Era al rovescio. Con una spalla sfiorai il tassello bianco del
    cavallo, quel pezzo di lycra che attraversava l'inforcatura delle gambe di mia moglie.
    Girai intorno alla casa, ed entrai nel salone con il grande divano angolare
    foderato di canapa azzurra. La sabbia gracchiava sotto le mie scarpe, me le tolsi, non
    volevo che Elsa mi sentisse. Camminai scalzo sull'impiantito di pietra che rimaneva
    sempre fresco. Allargai le dita, e distesi le piante per aderire meglio a quella frescura,
    mentre scendevo il gradino che conduceva alla cucina. Il rubinetto mal chiuso
    gocciava su un piatto sporco. Sul tavolo c'era un pezzo di pane abbandonato tra le
    briciole accanto a un coltello. Presi il pane e cominciai a mangiarlo.
    Tua madre era di sopra, riposava. La spiai oltre la porta socchiusa nella
    penombra: le gambe nude, la canottiera di seta dalle bretelle sottili, il lenzuolo
    accartocciato in fondo al letto, dove l'aveva spinto lei con i piedi, il viso coperto dalla
    massa folta dei capelli. Forse dormiva anche prima, per questo non aveva sentito il
    telefono. E quel pensiero mi acquietava, saperla addormentata mentre io... Come in
    un sogno. Masticavo il pane, mia moglie dormiva. Il suo respiro era calmo come il
    mare dietro la finestra.
    Buttai la biancheria nel cesto dei panni sporchi e m'infilai nella doccia. Ridiscesi
    in accappatoio lasciando impronte d'acqua sui gradini, cercai gli occhiali da sole e
    uscii sotto il pergolato. Il mare attraverso le lenti scure era di un azzurro più intenso e
    vibrante del vero. Ero a casa mia, nel profumo delle cose note, lo spavento era
    altrove, lontano. Mi ero lasciato un incendio alle spalle, sentivo ancora le fiamme nel
    volto. Guardavo, e cercavo di mettere a fuoco lentamente le cose. Dovevo riabituarmi
    a quell'uomo che credevo di conoscere e che si era perso dentro un bicchiere di vodka
    dietro un sordido richiamo, liquefatto come quei luridi cubetti di ghiaccio. Mi portai
    una mano sulla bocca per annusarmi l'alito. No, non puzzavo d'alcol.
    «Ciao, amore.» Elsa posò la mano sulla mia spalla. Mi girai e la baciai
    immediatamente. Il mio bacio cadde male, non centrò le labbra. Indossava la sua
    camicia di garza, sotto la trama s'indovinavano i capezzoli scuri di sole. Il suo
    sguardo era ancora pieno di sonno. La spinsi di nuovo verso di me, per un bacio
    migliore.
    «Hai fatto tardi.»
    «Ho avuto un intervento rognoso.»
    Avevo mentito d'istinto, e adesso ero lì saldo nella mia menzogna. Le presi la
    mano e ci incamminammo sulla sabbia verso la riva.
    «Vuoi uscire per cena?»
    «Se vuoi...»
    «No, come vuoi tu.»
    «Restiamo a casa.»
    Ci sedemmo. Il sole cominciava a essere più clemente. Elsa allungò le gambe,
    spinse le punte dei piedi fino all'acqua e rimase a guardarsi le unghie che
    scomparivano e riapparivano nella sabbia bagnata. Eravamo abituati a stare così,
    l'uno accanto all'altra in silenzio, non ci dispiaceva. Ma dopo qualche giorno di
    lontananza bisognava forzare le nostre intimità viziate dalla solitudine. Raccolsi la
    mano di tua madre e la carezzai. Aveva trentasette anni, forse mancava anche a lei
    quella ragazza dal cappotto di casentino arancione, che dondolava ubriaca fuori da
    quel ristorante e rideva piegata sul molo dove il vento spruzzava mare. Forse la
    cercava lì, sulla punta dei piedi, dove una spumetta chiara andava e riandava. Ma no,
    ero io il desaparecido. Io, con il mio lavoro senza orari, parsimonioso nel dare,
    frettoloso nel ricevere. Ma non ci saremmo certo messi a scavare nella sabbia per
    ricercare le reciproche manchevolezze. Il coraggio non dimorava più tra noi. Il
    coraggio, Angela, appartiene agli amori nuovi, gli amori vecchi sono sempre un po'
    vili. No, non ero più il suo ragazzo, ero l'uomo che l'aspettava in macchina quando
    entrava in un negozio. La mano di Elsa scivolava più morbida dentro la mia, come il
    muso di un cavallo che riconosce la sua biada.
    «Vuoi fare un bagno?»
    «Sì.»
    «Vado a infilarmi il costume.»
    La guardai dirigersi verso la casa, guardai le sue gambe che risalivano la
    spiaggia, volitive e salde. Ripensai a quelle altre gambe spolpate e molli all'interno,
    dove le avevo strette. E risentii il gusto di quel sudore, di quella paura. «Aiuto& »
    aveva sussurrato a un certo punto. «Aiuto.» Elsa adesso s'infilava nel giardino,
    sorrisi, come si sorride alle cose che ci appartengono. Tornai a guardare il sole che
    stava scendendo sul mare con un riverbero rosa e pensai che ero un uomo stupido. [ Pobierz całość w formacie PDF ]

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